di Roberto
Bracco
Capitolo 8:
Carcere giudiziario
1. Un'amnistia
provvidenziale
1a.
Un
nuovo arresto
1b.
La
Parola di Dio in prigione con noi
1. Un'amnistia
provvidenziale
Venne un periodo che
sembrava di tregua per la chiesa: un'amnistia
ampia e generosa interruppe la
mia condanna a due anni di sorveglianza speciale; i
confinati tornarono alle loro case; altri, come me,
furono condonati e tutti assieme trascorremmo diversi
giorni di gioia purissima nella comunione fraterna.
Molte
famiglie riabbracciarono i loro cari, esiliati
lontano; altre spensero la trepidazione che li
teneva in ansia per il loro congiunti sottoposti
a libertà vigilata, condanna che mantiene
continuamente, coloro che sono sottoposti ad essa
con un piede nella prigione e con uno fuori, e
tutta gioimmo per le catene infrante e per la
consolazione di rivedere molti fedeli lungamente
separati da noi ha causa del loro confinamento.
Sembrava che fosse giunta, se non la fine, una lunga
tregua alla persecuzione, ma pochi giorni furono
sufficienti a convincerci del contrario.
Mi trovavo in una di queste serate
gioiose in casa della famiglia L... per presiedere una
riunione di culto.
Il padre e la figlia maggiore erano tornati recentemente
dal confino; egli si trovava in quella sera seriamente
ammalato, mentre sua figlia si era recata a presenziare
una riunione di culto che si teneva in un quartiere basso
della città.
In casa c'era soltanto la mamma che accolse estesamente
tutti i fedeli che affluiranno nella sua abitazione.
Malgrado la malattia del marito era piena di gioia.
Non
solo aveva abbracciati i solitari tornati dal confino,
ma per il giorno successivo attendeva anche il
ritorno delle sue due figliole minori che terminavano
precisamente quel giorno la loro pena carceraria di
tre mesi ciascuna.
Queste due giovani
sorelle avevano avuto questa condanna perché
giudicate colpevoli di trasgressione alla "
sorveglianza speciale " ed avevano trascorso
gran parte della loro detenzione in celle in
comune, unite a donne criminali della peggiore
specie.
Esse avevano incontrato questa prova per
presenziare una riunione di culto.
|
Ma ormai la condanna
era giunta al suo termine, i tre mesi erano trascorsi; la
famiglia, dopo varie ed avventurose vicissitudini,
tornava a comporsi e perciò la vecchia mamma era
traboccante di serena gioia cristiana.
1a.
Un
nuovo arresto
I diversi fedeli si sistemarono
meglio che potevano nella non molto grande cucina, che
rappresentava il vano della casa più distante dalla
porta di ingresso (generalmente si usavano queste
precauzioni per non far udire rumori all'esterno) ed io
aprii il servizio di culto.
Innalzammo
sommessamente alcuni inni, poi, prostrati in
preghiera, elevammo le nostre lodi e le nostre
richieste; ancora un inno e quindi alcune
testimonianze.
Dopo
queste, iniziai il sermone: lessi
il salmo 144 e presi come testo i primi due versi.
Ma ero solo all'introduzione,
quando un trillo prolungato, oltre ogni convenienza, del
campanello mi fece comprendere che qualche cosa stava
avvenendo; comunque, non mi interruppi, ma potetti
pronunciare solo poche altre parole, perché un clamore
di voci concitate e di passi frettolosi arrestò il
sermone sulle mie labbra.
Dalla
porta una voce sonora e stizzosa esclamò: «È
Bracco che parla».
In pochi minuti la casa fu
letteralmente invasa da un intero drappello di agenti di
polizia. Io li conoscevo quasi tutti perché venivano dal
commissariato del quartiere nel quale io abitavo.
«Seguiteci!» fu
il comando imperioso.
Era inutile indugiare; ci
mettemmo in cammino e in pochi minuti ci trovammo tutti
nei locali del commissariato.
Incominciarono le pratiche alle quali ormai eravamo tanto
abituati e comprendemmo subito che le intenzioni del
commissario erano delle più severe. Infatti io,
unitamente a quattro fratelli (uno poi fu rilasciato la
mattina seguente) e la vecchia mamma unitamente ad una
sorella, fummo trattenuti e portati al piano terreno per
essere internati nelle camere di sicurezza.
Mentre attendevamo pazientemente
il disbrigo delle pratiche relative alla nostra
carcerazione, scese a vederci un arcigno funzionario col
quale molte volte avevo avuto relazioni, in conseguenza
della persecuzione, e che sempre mi era apparso un
terribile mastino.
Egli mi guardò e poi mi disse duramente, ma con una
sfumatura di benevolenza.
«Bracco
ti sei rovinato!»
Il mio aspetto, tutt'altro che
spaventato, dovette però convincerlo che non ero un
individuo completamente equilibrato e perciò, senza
aggiungere altro, ci voltò le spalle e si allontanò.
Poco dopo fummo chiamati dagli agenti di custodia e fummo
invitati a toglierci le correggie delle scarpe e dei
pantaloni e a depositare tutto quello che avevamo nelle
tasche.
1b.
La
Parola di Dio in prigione con noi
Io
avevo, assieme ad altre cose, una
copia del Nuovo Testamento e Salmi
e quello mi doveva servire per
esperimentare la fedeltà di Dio.
Infatti
nel periodo che tutti i fedeli cucivano pagine
della Bibbia nell'interno dei loro abiti o l'incollavano
fra le suole delle loro scarpe per avere la gioia
di poterle portare nell'interno delle prigioni
ove era impedita, nel modo più assoluto, la
lettura delle Sacre Scritture, io
mi ero rifiutato di seguire queste misure di
previggenza ed avevo ripetutamente dichiarato:
«Sento che Iddio
mi aiuterà a portare la Sua parola anche lì
dove è combattuta».
Io perciò
lasciai il mio piccolo Nuovo Testamento nel
taschino.
Ultimato l'inventario degli
oggetti consegnati, si avvicinò a me un graduato di
polizia per sottopormi alla perquisizione prescritta.
Palpò i miei abiti, le mie tasche e giunse con la sua
mano al taschino ove avevo lasciato il prezioso libricino.
«Questo
non si può tenere!» mi
disse risolutamente.
«È
semplicemente una copia del Nuovo Testamento»
risposi io con una
ingenuità naturalissima in quel momento.
Non
mi rispose, continuò il suo esame, giunse per la
seconda volta con la sua mano al taschino rigonfio e
solo allora ripeté: «Questo non
si può tenere!»
«Ma
è la Parola di Dio»,
insistei io con semplicità.
L'agente fu vinto, mi aprì la
porta della prigione e mi invitò ad entrare.
Varcai
la soglia della camera squallida e sporca con una
gioia nel cuore: avevo
la Sacra Scrittura con me.
I miei compagni mi seguirono
dopo poco ed assieme dividemmo la gioia della vittoria e
dividemmo anche il digiuno e l'insonnia. Non ci diedero
da mangiare e non riuscimmo a dormire su quellunico
letto comune di tavole infisse nel muro, senza materasso
e con una sola coperta sdrucita e sudicia.
Il giorno seguente, alle prime luci dellalba, ci
sentimmo chiamare e con nostra somma sorpresa udimmo la
voce della sorella tornata da poco dal confino.
«Dove
ti trovi?» chiedemmo.
«Nella
cella accanto alla vostra».
«Come
mai?»
«Ieri
sera tardi»,
ella ci disse, «tornarono
nuovamente gli agenti di polizia per arrestarmi quale
corresponsabile del!a riunione alla quale io ero
assente. Volevano arrestare anche il babbo»,
ella continuò, «ma la sua grave
malattia lo rendeva intrasportabile».
Continuammo la conversazione
fino ad una interruzione patetica.
Le
figliuole dimesse dal carcere, trovata la casa nel
disordine e nell'abbandono e appreso il motivo della
presentita sorpresa (mentre compivano il viaggio di
ritorno avevano ricevuto un avvertimento nello
Spirito), giunsero al carcere per vedere e baciare la
sorella e la mamma.
Fu loro consentito per pochi
istanti e così interruppero brevemente la nostra
conversazione.
Giunse il pomeriggio, la porta
improvvisamente si aprì:
«Si
esce?» ci domandammo
meravigliati.
La nostra meraviglia era delle
più legittime, perché quel «si esce» si
riferiva semplicemente ad un trasferimento dalla
cosiddetta camera di sicurezza al
carcere giudiziario.
Ci restituirono frettolosamente e alla rinfusa gli
oggetti che avevamo depositati e ci spinsero fuori, sotto
scorta armata, ove era ad attenderci un carrozzone chiuso,
in lamiera grigio-verde.
Fummo tutti presi in consegna da
altri agenti di polizia e caricati, come merce fuori uso,
sopra il carrozzone già gremitissimo di criminali
prelevati nei diversi quartieri della città.
Nella
strada erano ad attenderci un gruppetto di cristiani
che vollero tributarci da lontano il loro saluto
affettuoso e fraterno.
Il carrozzone fece un giro
vizioso per la città e finalmente raggiungemmo il detto
carcere giudiziario che ci doveva accogliere.
Furono
prima scaricate le donne nel reparto
riservato a queste e lì ci salutammo con le sorelle
incoraggiandoci vicendevolmente nel Signore.
Quindi venne il nostro turno; il
carrozzone varcò un cancello; poi un altro, un altro
ancora e si fermò. Scendemmo insieme a coloro che erano
diventati i nostri compagni e a piedi oltrepassammo altri
cancelli, altre porte di ferro fino agli uffici ove si
dovevano compiere le formalità duso:
Impronte digitali. Generalità. Versamento del denaro.
Fummo quindi condotti in una piccola cella per il
versamento degli oggetti proibiti. Versammo correggie,
spille, fibbie e quanto avevamo nelle nostre tasche.
Successivamente ci fecero denudare perché gli indumenti
potessero essere sottoposti ad un controllo accurato.
Tutto, tutto fu ammucchiato su un tavolo davanti agli
occhi nostri.
Fummo
invitati a rivestirci; non appena ultimata questa
operazione, io stesi con
naturalezza la mia mano per
riprendere il mio Nuovo
Testamento.
«Non
puoi prenderlo!»
mi disse il capo guardia senza asprezza.
«Perchè?»
chiesi - «È la
Parola di Dio»
E nel dire così mostrai
il libricino aperto al frontespizio.
Il severo funzionario
accolse la mia naturalezza con benevolenza e mi
rispose:
«Lascialo
ora, te lo porterò poi in cella».
E quell'uomo fu verace. Iddio
aveva premiata la confidanza che io avevo riposto nel Suo
aiuto onnipotente.
Ci accompagnarono in un
magazzino e ci caricarono del nostro corredo carcerario:
coperta, lenzuola, scodella di alluminio, cucchiaio e
forchetta di legno, bicchiere di alluminio ecc.
A notte inoltrata facemmo il nostro ingresso nella nostra
nuova residenza.
Vale la pena descriverla:
una cameretta lunga m. 3,50 e larga m. 1,50;
fornita di tre piccole brande in ferro e quattro
piccolissimi materassi ripieni di paglia. Una
finestra in alto con sbarre di ferro robustissime
e con persiane di legno volte in alto, uno
sgabello di legno e in un angolo un grosso vaso
di terracotta.
Nel mezzo, sospesa ad un filo elettrico, una
lampadina colorata blu. |
Quella la nostra dimora
per 23 ore del giorno.
Un'ora del giorno infatti è
riservata per far prendere "aria" ai carcerati
e questo avviene in cortiletti umidi e ombrosi, e le
altre 23 ore devono trascorrere nella cella dove non
esiste un gabinetto, non esiste acqua corrente, ove non c'è
aria sufficiente e ove non c'è neanche spazio
sufficiente per muoversi.
Eppure tutto deve compiersi lì,
a detrimento del pudore, dell'igiene, del morale.
Noi ci accorgemmo dell'esistenza
di tre brande e facemmo notare la mancanza della quarta,
ma la guardia ci spiegò che lo spazio non consentiva l'esistenza
di una quarta branda.
«Se
volete», aggiunse, forse
con dispetto, «uno di voi può
essere trasferito in altra cella».
Preferimmo rimanere uniti e
presto ci accorgemmo che fra il dormire in terra e il
dormire sopra la branda non c'era differenza. La durezza
era identica, gli insetti erano abbondanti in ambedue
questi luoghi.
In quei giorni si trovavano nel
medesimo carcere diversi fratelli condannati
precedentemente ed esclusi dall'amnistia; cercammo subito,
a mezzo dei secondini, di inviare loro dei messaggi, ma
fu una fatica inutile, perché tutti si rifiutarono di
prestarsi e tutto quello che potemmo fare fu solo di
scambiarci una o due volte un poco di cibo che
provvidenzialmente avevamo ricevuto dall'esterno. Dico
provvidenzialmente, perché la minestra giornaliera e le
due pagnotte di pane, che ci venivano date ogni giorno
non erano assolutamente mangiabili.
I giorni trascorrevano
lentamente e con monotonia che sarebbe stata opprimente se
la presenza della Scrittura non ci avesse offerta la
frequente possibilità di interromperla.
Tutto si svolgeva meccanicamente
e uniformemente: sveglia, pulizia della cella, rancio,
controlli giornalieri e notturni delle sbarre,
distribuzione dell'acqua, ritiro delle immondizie; tutta
la vita è racchiusa entro queste cose che serrano la
vita più di quanto possa fare la cella stessa.
Noi
credenti naturalmente avevamo aggiunte a queste cose
preghiera, lettura del Vangelo, conversazioni
cristiane, e anche lì brillava il raggio luminoso
della speranza e della gioia.
Giunse il giorno del
processo; Dio intervenne in un modo prodigioso; fummo
miracolosamente assolti; il giudice dichiarò, cosa
eccezionale per quell'epoca, che pregare Iddio
secondo i dettami della propria coscienza non
costituiva reato.
Tornammo in prigione pieni di
gioia per l'aiuto divino e, perché no, pieni d'ebbrezza
per l'imminente liberazione, ma ci era riservata una
sorpresa.
Nel pomeriggio non fummo posti
in libertà.
Chiedemmo
spiegazioni e ci fu risposto: «Siete stati
assolti dal magistrato, ma ora siete a disposizione
della Questura centrale».
Altre domande che
rivolgemmo ci fecero sapere che la Questura aveva
il diritto di trattenerci in prigione, a propria
disposizione, per la durata di sei mesi. Al
termine di questo periodo poteva chiedere il
nostro trasferimento in una camera di sicurezza
per poi rimandarci il giorno seguente nuovamente
al carcere; poteva così cominciare un altro
periodo di sei mesi.
Con questa procedura burocratica potevamo essere
trattenuti in stato di detenzione per anni ed
anni.
Questa esperienza ci fece vedere chiaramente
quali siano le risorse di un regime
prevalentemente poliziesco. Esso può operare
sempre al di sopra dei diritti umani, delle leggi,
della magistratura. La Sua potenza statale e
terribile. |
Ma Dio aveva
cominciato ad operare ed Egli non arresta a metà l'opera
che vuole portare a termine.
Non
abbiamo mai saputo quello che fece l'Eterno in
quei giorni, ma nel
pomeriggio del giorno seguente eravamo nuovamente
in libertà, accolti con
gioia dai fratelli e tutti assieme allegri nel
Signore.
|